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Garguz

1 settembre 2015

Se la coppia di Palagonia fosse stata uccisa da un fornaio, e la figlia avesse detto: “E’ colpa dello stato, deve chiudere tutti i panifici” avremmo detto che le sue parole sono comprensibili? No. Questo toglie qualcosa alla sua tragedia, al suo dolore e alla solidarietà che merita? Assolutamente no.

Un razzista può essere vittima, e da quel punto di vista lo rispetto.
Una vittima può essere razzista, e da quel punto di vista lo biasimo.

“Non vedo che problema c’è se mi vendo”: il rap, il successo e l’assoluzione pubblica dei peccati

Io faccio musica commerciale,
perché mi piace farvi incazzare,
però resto un genio al soldo del male,
perché al contrario di voi so rappare.
Sono una fabbrica di successi,
sul palco non sul pc,
e non ho mai venduto me stesso,
però io ho venduto i cd.
(Jake La Furia)

Mi sembra che ci sia una moda, ultimamente molto vistosa nel rap ma che probabilmente appartiene a chi proviene da un qualsiasi settore del mondo “alternativo”, che consiste, una volta “emersi”, diventati mainstream, con tutto ciò che comporta (canzoni più commerciali, pubblicità, presenza in programmi discutibili) nel fare canzoni ironiche sul fatto di essersi venduti al sistema. Io la chiamo coda di paglia.

Mi dai del commerciale, ti sbagli
Io sono supercommerciale al cubo
(Fabri Fibra)

Il denaro c’è sempre nei nostri dischi, perché non vogliamo essere ipocriti: a differenza di tutti quelli che in Italia si vergognano a dire che vogliono i soldi, come se ci fosse qualcosa di male, per noi non è così. Come in passato non ci siamo vergognati di parlare di altre cose. Del resto sono tutti fissati con il denaro, com’è possibile non parlarne?“: detta così, sembra più che legittima l’opinione di Guè Pequeno; fare soldi col proprio lavoro non è un male, anzi. Il problema, ovviamente, è un altro, e lui finge di non vederlo. E’ comunque in buona compagnia, se J-Ax arriva a direNon vedo che problema c’è se mi vendo“. Forse, per citare un altro rapper, “il problema è che ho un problema se per te non è un problema.
E’ sempre una questione di come. Come lo raggiungi il successo? Quale prezzo sei disposto a pagare per raggiungere la celebrità? A quanto hai rinunciato, con le tue nuove canzoni commerciali, per arrivare ad un pubblico più grande? Come si tengono assieme coerentemente La nuova stella del pop (critica degli Articolo 31 al mondo dei talent show) e la partecipazione di J-Ax a The Voice, o la partecipazione dei Club Dogo ad Amici con la visione del mondo che permea i loro testi?
In questo senso, fa sinceramente ridere la risposta piccata di J-Ax alle critiche di D’Orrico non solo perchè usare la forza del consenso per sminuire le critiche altrui (tu che mi critichi hai venduto pochissimo rispetto a me e sei uno sconosciuto) è una tecnica veramente odiosa, tutt’altro che anticonformista come J-Ax si ostina a volersi dipingere (accompagnata tra l’altro da battute sull’aspetto fisico, altro grande classico dei prepotenti e non dei ribelli), ma anche perchè è pacifico che quel successo di vendite non derivi tanto dalla qualità del libro (che può esserci o no, non è questo il punto) ma dalla sua apparizione televisiva, di cui il libro è il corollario, un suo gadget commerciale.

Di solito, la replica a queste obiezioni (oltre al sempre verde: “Siete solo invidiosi“) è che questi artisti partecipano a quei programmi per portare in tv, ad un pubblico più vasto, il loro mondo. Per esprimere, in un contesto ostile, una visione differente, addirittura per destabilizzare lo status quo musicale televisivo.
C’è un momento bellissimo in 15 milioni di celebrità, secondo episodio della prima stagione di Black Mirror, in cui il protagonista riesce a partecipare al talent show che è il fulcro e l’apice di ogni attività umana nella distopia proposta dalla trama e, minacciando di uccidersi, pronuncia un memorabile monologo contro l’ideologia consumista di quello spettacolo televisivo, che riduce tutto, comprese le persone, a merce. Dopo un silenzio carico di suspense generato dalle tesi radicali contro il programma appena espresse in diretta nel programma stesso, il giudice-conduttore dello show si complimenta col protagonista, tra i boati di un pubblico entusiasta, per la forza dirompente del suo monologo e lo invita a partecipare al talent show: il suo sfogo anti-sistema viene inglobato dal sistema, ne diventa parte, uno dei tanti momenti di intrattenimento, “30 minuti, due volte alla settimana“, che funziona proprio per la sua (ora solo apparente) carica eversiva, che piace tanto agli spettatori.

Il potere televisivo ha la capacità di assimilare le istanze divergenti e volgerle a proprio vantaggio: tutto diventa spettacolo e, costretto nei canoni del piccolo schermo, ogni messaggio perde la sua identità e, mischiandosi al resto, perde ogni potenziale eversivo. Non è solo perchè, con McLuhan, il mezzo è il messaggio, ma perchè il solo fatto di esistere televisivamente implica forme che non potranno mai ribellarsi davvero al mezzo che le veicola e alla sua ideologia. Ecco perchè non si può fare un discorso contro la mercificazione all’interno di un talent show, perchè tutto ciò che è al suo interno è già spettacolarizzazione consumista. Non c’è bisogno di censura, quando si può trasformare la ribellione in uno spot sulla ribellione, utile all’audience, commercialmente remunerativo.

Come per un carnevale bachtiniano, l’effrazione momentanea delle regole diventa una valvola di sfogo che sopisce gli intenti rivoluzionari, una pausa in cui si sovverte l’ordine delle cose, si deridono i potenti, per poi tornare, placati i rancori e le recriminazioni dei subalterni e senza che nulla sia cambiato, alla routine e ai rapporti di forza consueti.

La partecipazione ai meccanismi commerciali dello show business è di solito accompagnata da due pezzi forti del qualunquismo populista, la rivendicazione del disimpegno e il “così fan tutti”: secondo Jake La Furia Adesso più che mai, poi, è il momento di parlare di soldi, visto che sono il problema numero uno in Italia. Poi si critica chi tenta di dare di sé un’immagine vincente e ambiziosa, mentre se sei socialmente impegnato allora sei un figo. Peccato che molti di quelli che nel nostro ambiente sembrano impegnati, poi sono merde come gli altri…

Più venduto degli alcolici e dei medicinali
degli appalti, dei biglietti dei Mondiali
noi che ci mangiamo siamo artisti commerciali
per tutti gli altri che vorrebbero essere nostri commensali
non sono andato al Primo Maggio quest’anno
perché mi davano più cash in una discoteca a Vasto […]
fra la gente famosa sono tutti no global
da quando l’underground va di moda
(J-Ax)

Ammesso e non concesso che si possa generalizzare così sui comportamenti degli altri, perchè mai le condotte sbagliate di terzi dovrebbero giustificare le nostre? In realtà, questo tipo di discorso è subdolo proprio perchè suggerisce che le uniche due alternative siano l’ipocrisia di chi fa il moralista e si comporta male e l’onestà di chi agisce altrettanto turpemente ma almeno lo dice; la terza possibilità, cercare di vivere in maniera coerente alle proprie parole e ai propri valori, non è nemmeno presa in considerazione, non esiste.

Ci si limita, dunque, a rivendicare la propria onestà: a differenza degli altri ipocriti si ammette che si è commerciali, che si fanno tormentoni acchiappa-successo. Questo atteggiamento mi sembra indicativo di un comportamento che, tendenzialmente, appartiene a tutti e riguarda campi anche diversi dalla musica; un atteggiamento che ha nella sua semplicità la forza che lo rende difficilmente emendabile; la comodità ha gioco troppo facile contro la fatica per non essere una tentazione fortissima per ognuno di noi. L’onestà sostituisce la coerenza e l’impegno: non importa che facciamo cose sbagliate, basta dichiararlo esplicitamente, senza ipocrisia, e pretendiamo l’assoluzione pubblica senza dover nemmeno provare a cambiare le nostre azioni.

Garguz

27 agosto 2013

Le condizioni di un Paese si misurano con la velocità con cui le battute satiriche invecchiano.

Del razzismo

Calderoli: “Quando vedo Kyenge penso ad un orango”. La sua frase ha shockato tutti: “Calderoli pensa?!?”

(Non mi sfugge che esiste un razzismo consapevole, “politico” per così dire. C’è chi sostiene a mente fredda la superiorità della razza bianca ed altre simili amenità, così come c’è chi promuove politiche apertamente discriminatorie, ma in questo post voglio concentrarmi sulla forma di razzismo di cui parlerò perchè la ritengo più diffusa e penso che riguardi tutti quanti.)

Il livello culturale in Italia è talmente basso che anche le cose più banali assumono i connotati di rivelazioni rivoluzionarie. Tocca quindi ribadire alcuni punti che dovrebbero essere fermi, ma che in realtà sono tutt’altro che riconosciuti.

Il razzismo non è un club a cui ci si iscrive. Non c’è la tessera da richiedere, non bisogna fare una trafila burocratica per ottenere la patente di razzista.
Per questo nessuno dirà mai di essere razzista, perchè un’ammissione consapevole di tal fatta è, oltre che avvertita da tutti come socialmente riprovevole, anche personalmente difficile da ammettere. Ciò è dovuto anche al fatto che l’essere umano tende per natura a giustificarsi e a trovare alibi assolutorie per se stesso.
La classica battuta fulminante che evidenzia questa propensione umana è

Non sono io a essere razzista, è lui che è negro.

Fateci caso: chiunque inizi una frase con “Non sono razzista, ma…” sta per esprimere un concetto razzista. Perchè facciamo così? Perchè, come ho già detto, è più tranquillizzante, per la propria percezione di sé, convincersi che i pensieri razzisti che ci vengono in mente non siano razzisti, ma siano sempre in qualche modo giustificabili in altro modo che non sia il pregiudizio. E’ un fenomeno strano, per il quale da una parte ci si sente abbastanza in colpa da dover premettere “Non sono razzista” (evidente excusatio non petita, che rimanda sempre ad una accusatio manifesta) e dall’altra si è realmente convinti che l’opinione espressa dopo quella frase non contenga un luogo comune discriminatorio.

Un sottogenere di questo meccanismo è la battuta razzista. Quante volte abbiamo sentito i nostri amici fare battute razziste (o naziste) e poi specificare che non sono razzisti? Bisognerebbe riflettere di più sulla distinzione luttazziana tra tecnica e contenuto di una battuta (è la prima a far scattare la risata, a volte a dispetto del secondo):

Il punto non è se una battuta fa ridere o meno. Si ride infatti per il meccanismo comico […]; ma se questa abilità ti serve a veicolare un’idea razzista, sei un razzista.

Vi è, infine, l’insulto razzista, e qui le carambole giustificatorie toccano i vertici della spettacolarità: coloro che usano contro le persone di colore il termine “negro” sono solite sotenere che è solo un modo per insultare, che il razzismo non c’entra. Anche qui: è molto più semplice convincersi che sia così, ma così non è affatto. Se usi un termine razzista, sei razzista. Ci sono mille modi per insultare una persona, se tu scegli proprio “negro” sei razzista. Se ad una persona di colore che si è comportata da bastardo dici “negro” e non “bastardo”, sei razzista. Finiamola con tutta questa ipocrisia autoassolutoria.

In questi giorni di polemica per la frase razzista di Calderoli, un altro tormentone è tornato in voga per sostenere che il ministro non avesse espresso concetti razzisti: “Ma se è razzista Calderoli, allora lo è anche chi dà del nano a Brunetta!”. Attenzione attenzione: sì.
Il termine giusto, più che razzista, sarebbe discriminatorio, ma il concetto è lo stesso: se dài a Brunetta del nano, se dài a Totti del romano di merda, stai insultando una singola persona utilizzando attributi fisici in maniera denigratoria, oppure facendo ricorso a pregiudizi socio-culturali. Questa è la definizione di discriminazione.

Calderoli, per difendersi dall’accusa di razzismo, è riuscito anche a dire che paragonare la Kyenge ad un orango non era un giudizio politico, ma estetico. Come se insultare una persona perchè è brutta sia invece una cosa accettabile!

Piccolo manuale di comicità – Lezione I (o della Differenza Fondamentale)
Sfottò: deridere Calderoli perchè è brutto.
Satira: deridere Calderoli perchè è stronzo.

E’ difficile ammettere di essere razzisti, perchè si ritiene (in maniera erronea) che l’esser razzisti sia una categoria assoluta dell’essere, che si può essere solo “razzisti sempre” o “non razzisti”: ammettere di aver avuto una reazione o un pensiero razzista equivarrebbe così ad ammettere di essere una persona cattiva, dai comportamenti cattivi. Soprattutto, significherebbe ammettere di essere consapevolmente, volutamente cattivi. Ma le cose non stanno affatto così: la diffidenza nei confronti del diverso può essere una reazione istintiva (dovuta allo smarrimento di fronte a ciò che non si conosce, all’allontanamento dalla norma quotidiana e perciò rassicurante) e, esattamente come qualsiasi altro istinto, non qualifica di per sé la persona che lo prova. E’ il passo successivo a definire chi sei. Se riconosci la tua paura come immotivata, se non agisci in base ad essa, se correggi l’istinto, non sei razzista. Se ti lasci trasportare da essa, lo sei, anche fosse solo per quel momento. Se poi ti bei di questo istinto, sei pure stronzo.